Dalla riforma del pubblico impiego alla riforma della Pubblica Amministrazione
Quarta di copertina
Riformare è di per sé difficile e lo è ancora di più nelle strutture burocratiche storicamente viscose al cambiamento. La norma in questo caso aiuta, è un enzima potente di innovazione. Cogliendo l'enfasi e la forza d'urto della norma, non è difficile verificare come le avanguardie culturali e tecniche vengano legittimate dalla ratio riformatrice. Al contrario, le retroguardie non hanno alibi e il non fare tende ad essere censurato ed isolato. Quindi c'è una fase magica che segue ogni riforma. Fase in cui vanno innestate altre e potenti leve di innovazione che agiscano su tutti i fattori in gioco: da quelli retributivi a quelli emotivi, dalla valutazione al controllo, dall'organizzazione interna ai rapporti con l'esterno.
Il volume esplora i fattori salienti di quel “dopo riforma” poco considerato e che, in quanto tale, fa rapidamente scivolare le buone intenzioni nella palude della prassi quotidiana. È strutturato in tre parti: Ricominciare dalle risorse umane, Le sfide della trasparenza, Lo snodo cruciale della dirigenza. In Appendice la cronistoria ragionata delle riforme della Pubblica Amministrazione in Italia.
Considerazioni introduttive
Il transfert tra fini e mezzi
La chiave dell'innovazione
I rischi da evitare
La centralità della dirigenza
Le opzioni su cui scommettere
La sfida della trasparenza
L'articolazione dei contributi
Parte prima
RICOMINCIARE DALLE RISORSE UMANE
1. Centralità e ruolo delle persone nei processi di trasformazione delle pubbliche amministrazioni, di Alessandro Hinna e Danila Scarozza
1.1. Introduzione
1.2. L'organizzazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche: la burocrazia
1.3. Il processo di riforma della Pubblica Amministrazione: il punto di vista dell'organizzazione
1.4. Le barriere della burocrazia: resistenze e vincoli al cambiamento organizzativo nella Pubblica Amministrazione
1.5. Alla ricerca di comportamenti efficaci: la centralità degli attori
1.6. Conclusioni
1.7. Biografia
2. La misurazione delle performance, di Fabio Monteduro
2.1. L'importanza e la funzione della misurazione delle performance nelle amministrazioni pubbliche
2.2. Cosa si intende per performance: uno schema concettuale
2.3. La misurazione delle performance
2.4. Dalla misurazione alla gestione delle performance
2.5. La gestione delle performance nella riforma Brunetta
3. Le leve per il cambiamento strutturale dei sistemi di gestione della performance nella PA, di Giuseppe Del Medico
3.1. Introduzione
3.2. L'attuale riforma: i punti di forza per un cambiamento strutturale della PA
3.3. Conclusioni
Parte seconda
LE SFIDE DELLA TRASPARENZA
4. Lo stakeholder engagement: uno strumento per la trasparenza totale nelle PA, di Maria Scinicariello e Sandro Mameli
4.1. Introduzione
4.2. I concetti di stakeholder e di engagement
4.3. Finalità, valenze e requisiti dello stakeholder engagement nella PA
4.4. Le competenze manageriali per gestire lo stakeholder engagement
4.5. Ruolo e responsabilità degli stakeholder in chiave di policy shaping
4.6. Alcune indicazioni metodologiche ed operative per favorire la partecipazione degli stakeholder
4.7. Conclusioni
Parte terza
LO SNODO CRUCIALE DELLA DIRIGENZA
5. La riforma della Pubblica Amministrazione: il ruolo del dirigente ed il quadro delle sue responsabilità, di Giovanni Tria
5.1. Il contesto economico della riforma amministrativa
5.2. Il contesto storico della riforma amministrativa
5.3. Il problema del cambiamento
6. La riforma della Pubblica Amministrazione e i processi di valutazione, di Luciano Hinna
6.1. Riforme, amministrazione ed importanza dei comportamenti per l'implementazione delle norme
6.2. Linee fondamentali della riforma
6.3. La “valutazione” come processo centrale nel sistema introdotto dalla riforma Brunetta
6.4. Il ruolo del dirigente pubblico nell'implementazione
6.5. Il concetto di performance come tema portante dei nuovi meccanismi di incentivazione di efficienza ed
efficacia
6.6. I modelli di valutazione possibili
7. I grandi nodi da sciogliere, di Mauro Marcantoni
7.1. Input politico-programmatici chiari e praticabili
7.2. La valutazione come strumento fondamentale della gestione e non come adempimento burocratico
7.3. Obiettivi chiari, misurabili e sfidanti
7.4. Indicatori capaci di cogliere gli aspetti qualitativi
7.5. Informazioni veritiere e non solo da fonti interne
7.6. Una valutazione non appiattita sui livelli alti
7.7. Esiti della valutazione collegati alla retribuzione di risultato e agli sviluppi di carriera
7.8. Un'adeguata cultura della gestione del conflitto tra valutato e valutatore
8. Appendice. Cronistoria ragionata delle riforme della Pubblica Amministrazione, di Flavio Guella e Gianfranco Postal
8.1. La separazione tra indirizzo politico ed indirizzo tecnico-amministrativo
8.2. Dallo spoil system ai controlli e alla responsabilità dirigenziale
8.3. La valorizzazione in termini organizzativi e di azione amministrativa del concetto di performance
Considerazioni introduttive
È condizione ampiamente condivisa che i ripetuti tentativi, anche recenti, di riformare l'apparato della Pubblica Amministrazione non abbiano finora dimostrato una sostanziale capacità di intaccare i tradizionali limiti della cultura e dell'organizzazione burocratica. Eppure gli interventi attivati nel corso degli anni dai governi, dagli organi apicali dello Stato, dagli studiosi, hanno ripetutamente indicato con una certa coerenza gli obiettivi a cui tendere e le modalità ritenute più idonee per raggiungerli.
Tuttavia, i risultati sono sempre apparsi deludenti, con il rischio di accreditare l'idea che ogni intervento sia inutile o comunque incapace di “produrre” cambiamento.
Prima della riforma Brunetta del 2009, c'era stata la riforma “Bassanini” del 1997 e prima ancora la riforma “Cassese” del 1993. Serviva una nuova riforma? In che cosa la riforma Brunetta si differenzia dalle precedenti? Quali sono le novità? Sono poche, ma di grande importanza e sono più innovazioni intangibili che nuovi adempimenti normativi. Il decreto legislativo 150 introduce in maniera forte una serie di valori etici da mettere a sistema: meritocrazia, trasparenza, miglioramento continuo, selettività, qualità, misurazione, valutazione, coinvolgimento degli stakeholder in una logica di ascolto.
Questi i valori della riforma in filigrana che per produrre un effetto reale devono essere riconosciuti e condivisi da tutto il “popolo” della PA. Un “popolo” che singolarmente e a parole li riconosce come valori fondanti ma che, collettivamente e nei fatti, non li traduce, almeno nella maggioranza dei casi, in un coerente cambiamento dei comportamenti, mostrando così alla pubblica opinione il lato peggiore della nostra Pubblica Amministrazione. Fatto questo che non è la regola e, a ben vedere, neppure la realtà.
Quella in atto è una riforma che rischia di essere identificata con gli slogan che l'hanno accompagnata: uno per tutti “cacciate i fannulloni”. Al contrario è una riforma che mette al centro del progetto la modifica complessiva dei comportamenti dei dipendenti pubblici, censurando quelli negativi e valorizzando quelli positivi. E ancor di più si concentra sui vertici politico-amministrativi, apprezzando la “componente virtuosa”, ma reagendo con forza a quella distratta, impreparata, improvvisata ed incompetente a gestire organizzazioni complesse come quelle pubbliche.
Il transfert tra fini e mezzi
Il decreto 150/99 non è una norma del “cosa”, ma una norma del “come”. Rispetto alle riforme precedenti non ha aggiunto di fatto contenuti nuovi, ma ha delineato il “come”, incidendo sui comportamenti dei dipendenti pubblici a tutti i livelli: e questa non è una novità di poco conto.
Un'altra differenza importante è lo spostamento del baricentro degli interessi. Le leggi precedenti erano partite con l'idea di riformare la Pubblica Amministrazione, arenandosi quasi subito sul nodo cruciale della riforma del pubblico impiego. In altri termini, senza indicazioni stringenti e senza un bilanciamento delle forze, i sindacati dei dipendenti pubblici, interpretando il loro ruolo, hanno ottenuto il massimo vantaggio per i loro rappresentati senza che i cittadini, assenti dal tavolo, vedessero soddisfatte le loro aspettative.
Il fatto di anteporre la riforma dell'apparato pubblico – orientata alla aspettative dei dipendenti – a quella della Pubblica Amministrazione – orientata alle aspettative dei cittadini – è legato in particolare ad un atteggiamento storico della nostra dirigenza pubblica: privilegiare l'adempimento anziché il risultato, finendo con il perseguire la “lettera” della norma anziché lo “spirito” della norma. In questo modo si è sistematicamente confuso il fine con il mezzo senza alla fine riformare nulla.
È del tutto evidente che rimettere al centro i fini rispetto ai mezzi non è un'operazione che si realizza in forza di legge. L'attenzione va spostata sui comportamenti e sulla capacità di rendere conciliabili gli interessi generali, in senso lato quelli dei cittadini, e quelli particolari, segnatamente dei dipendenti pubblici. Un'operazione che mette in campo strategie e logiche diverse dal passato, che pur facendo leva sulle norme, vadano ad incidere sui meccanismi di formazione e di orientamento dei comportamenti. Logiche e comportamenti influenzati dall'etica, che non è esigibile per norma.
Quindi una forte azione culturale vissuta come coessenziale all'azione e non come semplice corollario per “tacitare” le coscienze. Ed oltre a questo, un'azione consapevole di avvicinamento tra interessi generali (bene comune) e interessi di parte (dipendenti pubblici) attraverso un sistema organico di azioni fatto di tecniche di valutazione che riconoscano il merito e il risultato, di controlli esterni che li riconoscano e li certifichino, di incentivi “orientati al valore” e non solo alla remunerazione, di soluzioni organizzative che avvicinino l'interesse dei singoli a quello degli utenti.
La chiave dell'innovazione
Riformare e innovare è di per sé difficile, e lo è ancora di più nelle strutture burocratiche storicamente viscose al cambiamento. A ciò si aggiunga la complessità dell'agire pubblico sempre più caricato di attese che lievitano e si consolidano nei cittadini, nelle istituzioni e nelle imprese.
La norma in questo caso aiuta, è un enzima potente di cambiamento: cogliendo l'enfasi e la forza d'urto della norma, non è difficile verificare come le avanguardie culturali e tecniche vengano legittimate dalla ratio riformatrice. Al contrario, le retroguardie non hanno alibi e il non fare tende ad essere censurato ed isolato. Quindi c'è un momento magico che segue ogni riforma. Momento nel quale devono essere innestate altre e potenti forze di innovazione che agiscano su tutti i fattori in gioco – da quelli retributivi a quelli emotivi, dalla valutazione al controllo, dall'organizzazione interna ai rapporti con l'esterno –.
Ed è appunto per questo che la riforma Brunetta ha tentato di cambiare i comportamenti dei dipendenti pubblici – il come – mettendo tra le gerarchie della priorità la riforma della Pubblica Amministrazione a vantaggio dei cittadini e leggendo la riforma del pubblico impiego strumentale a tale obiettivo e non viceversa come era avvenuto nel passato. Ciò non significa che la riforma sia stata avviata a scapito dei dipendenti, ma prevedendo comportamenti di questi ultimi nuovi e diversi si è cercato di fare in modo che vincano tutti: i cittadini, le imprese, il Sistema Paese, senza comunque escludere i dipendenti pubblici.
I rischi da evitare
Una volta valutati i vincoli e l'ampiezza del terreno di confronto, che va molto al di là della norma, si riuscirà a riformare un sistema di pubbliche amministrazioni ancora arroccate su configurazioni e culture organizzative che inaugurarono lo Stato unitario?
Chi conosce la Pubblica Amministrazione è legittimato a dubitare: per cambiarla ed innovarla le norme sono condizione necessaria, ma non sufficiente. La storia delle riforme della Pubblica Amministrazione è costellata di buone idee e di grandi fallimenti. Non è solo questione di imperizia o di sfortuna, ma il risultato di una particolare composizione di fattori interni ed esterni al sistema organizzativo di ogni soggetto pubblico.
Come noto, ci sono all'interno dell'organizzazione burocratica alcuni elementi che da sempre costituiscono un freno al cambiamento e che paradossalmente sono individuabili nella natura stessa della burocrazia: un corpus omogeneo di funzionari che per motivi professionali svolge da anni con discrezione, metodo e competenza un medesimo tipo di pratiche. Un corpus destinato ad acquisire un potere di fatto che va molto al di là di quello formale e che argina le interferenze esterne o per tutelare l'imparzialità dei comportamenti amministrativi o per salvaguardare, e il caso non è infrequente, logiche interne o interessi corporativi.
In tal modo la burocrazia difende la propria autonomia da interferenze esterne, ma difende anche se stessa da eventuali critiche e trova modo di sottrarsi al controllo dei cittadini e dell'autorità politica, sia essa esercitata da governi o parlamenti. D'altra parte, gli studiosi di organizzazione da sempre sottolineano come, in assetti di tipo burocratico, come sono quelli propri della Pubblica Amministrazione, pressioni ambientali messe in atto da lobby, corpi sociali e altre forme organizzate degli attori in gioco, diano vita a consolidate situazioni di bilanciamento di potere fra le parti. Ed è appunto la difesa di questi equilibri che diviene, presto o tardi, la base attorno alla quale la burocrazia tende ad organizzarsi, rifiutando ogni cambiamento che possa compromettere detto equilibrio, permettendo, in tal modo, solo cambiamenti apparenti. Ed è proprio per questo che i cambiamenti finiscono con l'essere, in prevalenza, solo apparenti.
La centralità della dirigenza
Quanto fino ad oggi realizzato nel campo della valutazione della dirigenza ha evidenziato una situazione complessa e delicata, nella quale l'implementazione di sistemi di performance evaluation all'interno della Pubblica Amministrazione ha messo in discussione il tradizionale modo di lavorare orientato alle funzioni e radicato a fondo nelle persone e nella loro organizzazione.
Inoltre, l'adozione nelle realtà pubbliche di metodologie valutative ereditate dal mondo imprenditoriale – i Sistemi di Gestione della Qualità, l'approccio Total Quality Management e la Balanced Scorecard – ha comportato una serie di adattamenti legati non solo alle loro peculiarità istituzionali, ma anche alla necessità di comprendere nella mission, oltre ai risultati, anche il modo in cui essi vengono raggiunti.
La valutazione dell'attività lungo questi due assi ha aumentato in maniera significativa la complessità delle soluzioni da ideare ed adottare, poiché gli stakeholder, a cui i manager pubblici devono render conto con il loro lavoro, non si accontentano di quote di mercato e profitto ma pretendono una superiore attenzione sociale al cittadino.
L'esigenza fondamentale è quindi quella di entrare nel merito di questa cruciale linea di tensione partendo da quella che può essere considerata la punta dell'iceberg della produttività e dell'orientamento al risultato degli apparati pubblici: la valutazione della dirigenza.
Le opzioni su cui scommettere
Questa analisi non si traduce certo nell' “impossibilità” di cambiamento delle organizzazioni del settore pubblico. Quello che importa è adottare criteri di intervento più incisivi e soprattutto giocati su più ambiti: da quelli normativi, che pur rimangono centrali, a quelli economico-gestionali, sociologici, e per molti versi anche cognitivi. In questo senso va sottolineata l'inopportunità di riproporre le terapie che nel tempo si sono rivelate inadeguate o peggio ancora di rimuovere la questione ritenendola di fatto marginale. La situazione è seria e come tale va affrontata, pena immettere nel sistema competitivo italiano, già affaticato dalla crisi in atto, un ulteriore e gravoso freno alle possibilità di sviluppo. È del tutto evidente che la competitività non si gioca solo sulla capacità delle imprese, sull'adeguatezza delle infrastrutture e sulla ricchezza del capitale sociale, ma anche sull'efficienza della macchina pubblica che intreccia, in positivo e in negativo, tutte queste dimensioni. Quindi è necessario enfatizzare il rilievo della questione, non per creare inutili allarmismi, ma per prendere atto che solo una crisi, uno shock o una forte pressione esterna all'organizzazione possono aiutarla a vincere le resistenze al cambiamento.
Tuttavia questo shock tarda a venire, e non è un bene.
I citati “fattori interni” di resistenza al cambiamento trovano nella fattispecie delle burocrazie pubbliche ulteriori elementi di rinforzo in una condizione di “pressione esterna” strutturalmente debole. Innanzitutto le amministrazioni pubbliche da sempre non sottostanno alle leggi della concorrenza di mercato e operano in una situazione di monopolio o quasi monopolio. Inoltre il risultato della loro azione è di difficile misurazione e anche l'apprezzamento da parte degli utenti non sempre è un indicatore di efficienza o di inefficienza. I criteri di adeguatezza dell'azione della Pubblica Amministrazione devono infatti ricomprendere tutti gli anelli della catena che vanno dalle risorse impiegate, all'efficienza ed efficacia dei processi, fino alle valutazioni di economicità e soddisfazione dei clienti-utenti.
Sebbene la collettività abbia in linea di principio la possibilità di fissare i macro-obiettivi economici e sociali, nonché il diritto di nomina e revoca dei propri rappresentati amministratori, l'esercizio di tale diritto soffre di particolari limitazioni. Pertanto è un esercizio esposto ai condizionamenti tipici del processo democratico, generalmente riconducibili alla complessità dei temi, al difficile accesso alle informazioni e al concatenamento a fatica estricabile di cause e concause.
La sfida della trasparenza
Il combinato disposto di fattori esterni e interni alla Pubblica Amministrazione lascia pensare ad una loro particolare relazione ambiente-organizzazione, dove i processi di cambiamento ed innovazione sono condizionati dalla “volontà” e “libertà” che la singola amministrazione ha nello scegliere tra:
a) introdurre soluzioni organizzative coerenti alle aspettative del legislatore e, in ultima istanza, ai bisogni della collettività;
b) non introdurre soluzioni gestionali nuove, accettando un minore livello di performance organizzative, scaricando il “costo del non cambiamento” sulla comunità.
È qui che entra in campo un altro fondamentale valore a sistema: la trasparenza, la condizione necessaria per esercitare una più efficace pressione sui risultati ed un controllo sociale più incisivo sulla Pubblica Amministrazione. Tutto questo, con il vecchio concetto di trasparenza, non era assicurato. Il suo valore sociale, anche dal punto di vista giuridico è stato completamente rivisitato con il decreto 150 e ne è stato modificato completamente il paradigma: la trasparenza è passata da “concessione del principe al suddito” presente prima e dopo la legge 241 del 1990 a “diritto totale del cittadino”, inteso come “diritto all'accessibilità totale”. Un passaggio che rende evidente cosa fa la Pubblica Amministrazione, come lo fa, chi lo fa, con quali risultati, a che costi e con quali standard di qualità.
La pubblicazione sui siti delle amministrazioni pubbliche e delle loro società collegate dei dati relativi agli organici, agli stipendi, alle giornate di assenza e agli incarichi di consulenza è una novità che ha fatto molto discutere. Una novità, come si è detto, di sicuro rilievo per una maggiore trasparenza degli stili e dei comportamenti pubblici, ma anche una novità che, se non colta nel suo giusto significato, può trasformare i vantaggi in danni
Il termine accountability, di cui la trasparenza è un tratto fondante, non trova una facile traduzione nella lingua italiana. In buona sostanza è l'obbligo di chi governa di rendere “riconoscibile” il proprio operato per dar conto ai cittadini dei risultati raggiunti. Secondo questo approccio la capacità di “misurare” l'adeguatezza della gestione e l'impatto delle politiche adottate è un presupposto chiave.
Quindi ben venga l'accountability, come appropriata “cornice” della trasparenza e come occasione preziosa per riservare il giusto rilievo ad un dato essenziale: a che cosa sono servite le risorse umane e finanziarie impiegate, e con quali riscontri oggettivi.
Senza questo confronto ogni valutazione che si limiti al dato meramente finanziario è di fatto fuorviante. Una quota di risorse elevata può risultare impiegata in modo ottimo e, di converso, una quota contenuta può essere mal gestita o addirittura sprecata.
L'accountability ha di conseguenza bisogno di un rigoroso e puntuale riscontro sui risultati ottenuti. Riscontro che enti e aziende dovrebbero fornire anche se non previsto dalle norme. Solo questo può evitare, o almeno contenere, il rischio di valutazioni parziali o strumentali. Un rischio che comporterebbe due effetti negativi. Innanzitutto vanificare una condizione essenziale, la trasparenza appunto, per esercitare il controllo diffuso che è alla base delle moderne democrazie. In secondo luogo, non valutare nel giusto modo la qualità e l'efficienza dell'azione pubblica, condizione vitale per rispondere a bisogni sociali ed economici in vorticoso aumento, a fronte di risorse pubbliche in preoccupante calo.
L'articolazione dei contributi
Alla luce delle riflessioni fin qui proposte, queste novità appaiono di assoluto rilievo e sostanziano un progetto di riforma di grande respiro, con una visione che va ben al di della “lotta ai fannulloni”. Un progetto teso non solo ad indicare la direzione dei cambiamenti attesi ma anche, ed è questo il punto, a creare le premesse affinché essi effettivamente si realizzino. Un'azione convergente su “programmazione”, “misurazione”, “valutazione” e “trasparenza” dell'azione amministrativa compare per la prima volta nell'agenda politica italiana. Una miscela teoricamente esplosiva che dovrebbe condurre anche il sistema pubblico a vivere situazioni particolari di goal pressure, creando ragionevoli condizioni affinché anche alle amministrazioni pubbliche possa risultare meno facile “sfuggire” la pressione esterna sui risultati e, quindi, valutare potenzialmente conveniente avviare innovazioni organizzative da tempo attese.
I contributi contenuti in questo volume sono articolati in tre parti.
La prima prende in considerazione il nodo cruciale delle risorse umane e l'importanza di un'organizzazione che superi il tradizionale modello burocratico con cui ancora oggi l'amministrazione pubblica è intimamente legata. In particolare, Alessandro Hinna e Danila Scarozza affrontano i temi della centralità e del ruolo delle persone nei processi di trasformazione delle pubbliche amministrazioni. In altri termini, il punto centrale è la presa di coscienza di un nuovo concetto di burocrazia, che consideri non solo gli aspetti giuridico-organizzativi ma anche quelli professionali e cognitivi.
Il contributo di Fabio Monteduro entra più nel merito della misurazione delle performance. Se nella nuova agenda della Pubblica Amministrazione c'è il miglioramento della performance per farla crescere nel Sistema Paese, è inevitabile che si debba diffondere la cultura della valutazione. Una cultura che poggia a sua volta sul pilastro concettuale della misurazione. Sempre in tema di misurazione è fondamentale verificare se si è creato solo un delta più di burocrazia o un delta più di risultati, se si sarà realizzato un investimento o una spesa o, peggio, uno spreco.
Il contributo di Giuseppe Del Medico tratta il tema delle leve attraverso le quali innescare reali processi di cambiamento, aumentando la probabilità di una loro acquisizione e stabilizzazione nel patrimonio tecnico e culturale della Pubblica Amministrazione italiana.
La seconda parte affronta la trasparenza come nuovo strumento di connessione tra comportamenti pubblici e comportamenti privati. Maria Scinicariello e Sandro Mameli entrano nel merito dello stakeholder engagement: uno strumento per la trasparenza totale nelle pubbliche amministrazioni. Si tratta della strategia di ascolto e coinvolgimento dei cittadini, gli stakeholder, che leggono l'amministrazione come pubblica ma non la vivono come una res publica. Nelle loro mappe cognitive non la sentono come una cosa loro, ma come una cosa lontana da sé in un momento in cui emerge in maniera sempre più prepotente la necessità di riavvicinare i cittadini alla Pubblica Amministrazione in un progetto condiviso. È in questo ambito che si
colloca uno strumento vecchio ma nuovo per la Pubblica Amministrazione: lo stakeholder engagement ed i processi di rendicontazione intesi come accountability per rendere conto nel linguaggio dei destinatari non solo delle risorse impiegate ma anche dei risultati ottenuti.
La terza parte presenta il ruolo chiave delle performance della dirigenza pubblica. Il contributo di Giovanni Tria sottolinea la crucialità del ruolo del dirigente anche nel quadro delle sue responsabilità. In particolare, la riflessione tocca i contesti economico e storico delle riforme amministrative, concentrandosi poi sulle resistenze al cambiamento.
Luciano Hinna analizza la valutazione della dirigenza come processo centrale della riforma Brunetta, per poi passare alla performance come tema portante dei nuovi meccanismi di incentivazione di efficienza ed efficacia dell'azione pubblica.
Mauro Marcantoni si sofferma sui grandi nodi da sciogliere, rilevando, dall'osservazione attenta delle esperienze concrete, i punti critici sui quali costruire una nuova strategia che faccia della valutazione della dirigenza non un adempimento formale a cui adeguarsi, ma uno strumento essenziale del management pubblico.
L'appendice propone infine una dettagliata cronistoria, curata da Flavio Guella e Gianfranco Postal, dei processi di riforma dell'organizzazione amministrativa, con particolare attenzione per la separazione tra indirizzo politico ed indirizzo tecnico amministrativo, per i suoi corollari organizzativi, dallo spoil system ai controlli e alla responsabilità dirigenziale, per le recenti innovazioni in tema di performance e di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa.
L'augurio è che per il lettore, stakeholder o dipendente pubblico che sia, i contributi proposti costituiscano un terreno di lavoro, anche se parziale, per riflettere sulle scelte e sui comportamenti che ispirano un civil servant, scelte e comportamenti a cui dovrebbe ispirarsi anche la burocrazia italiana.
Il profilo del civil servant, nella concezione anglosassone, è più vicino a quello del “volontario” tipico del nostro settore no profit che al profilo legato al rapporto contrattuale tra prestazioni e stipendi. La mappa concettuale che ispira il civil servant è quindi quella di chi decide di lavorare nel settore pubblico per convinzione e non per opportunismo o per mancanza di alternative. E questo anche sacrificando parte dei possibili maggiori proventi economici che potrebbe ottenere lavorando nel privato, perché motivato da uno spirito di servizio forte nei confronti del proprio Paese, dei propri concittadini e della propria comunità. Un sacrificio compensato dal credito sociale e dal riscontro positivo agli occhi della pubblica opinione.
Nella Pubblica Amministrazione italiana non è così: la percezione che il cittadino comune ha del dipendente pubblico è molto lontana da quella del civil servant e la stessa considerazione che ha il dipendente pubblico del proprio ruolo è ugualmente diversa e negativa.
Fortunatamente nella nostra Pubblica Amministrazione opera anche un apprezzabile numero di persone che possono essere associate al civil servant della cultura anglosassone, ma che sono soffocate da un clima contrario e negativo e tendono quindi a confondersi ed appiattirsi su livelli di mediocrità. L'obiettivo di una buona riforma della Pubblica Amministrazione italiana non è quindi solo quello di ridefinire architetture, processi e responsabilità, ma anche quello di far emergere la ricchezza del potenziale umano che opera nelle amministrazioni pubbliche e di dare a cittadini e stakeholder la capacità di discernere tra chi risponde e chi non risponde alle proprie attese.