News/Approfondimenti > 02 giugno 2007

Trentino, il potere immobile. Il primo Rapporto sugli uomini che decidono il futuro della provincia

Un ceto misogino e chiuso. Che non sopporta esami

TRENTO. «Le vere classi dirigenti non si formano né nelle corti dove vigono ossequio ed obbedienza, né nei clan dove conta la fedeltà, né nelle tribù che si fondano sull’appartenenza. Nascono là dove si lavora, si rischia, si sbaglia». È l’ideale incubatore descritto con poche, essenziali parole da Pier Luigi Celli. Al tempo stesso è il fulminante ritratto, in negativo, di un Trentino la cui classe dirigente è misogina (le donne sono il 7,9%), affamata di poltrone (il 51,6% ha più di una carica), gelosa del proprio potere (il 73,2% è indigena) ed intellettualmente incestuosa (la selezione è per cooptazione). Se ancora regge al suo posto, probabilmente, è perché i quattrini che gestisce sono così tanti che possono sistemare qualsiasi errore. Alla faccia di esami e verifiche.

Ritratto duro - naturalmente con tutte le eccezioni del caso - ma vero. Al di là dello choc che possono procurare le parole, la fotografia è emersa con asettica forza, ieri a Palazzo Calepini, dalla presentazione del “Primo rapporto sulla classe dirigente in Trentino - Lo sviluppo come responsabilità diffusa” coordinato da Nadio Delai e Mauro Marcantoni e pubblicato da Franco Angeli. Peccato che Lorenzo Dellai, impegnato con il ministro Bersani, non abbia potuto essere presente. Un suo giudizio sarebbe stato interessante, anche se, conoscendo il Rapporto, aveva già commentato che, in effetti, «qualche criticità emergeva».

La gentilezza dei termini, se favorisce il dialogo, può anche essere un merito. Così Adriano Dalpez ha parlato di «giudizio finale positivo» e Marcantoni di «luci ed ombre». Del resto nella Sala della Fondazione ieri non si stava facendo la rivoluzione, ma si tentava di capire da chi siamo governati.

Lo studio fornisce un ritratto di una classe dirigente poco aperta al nuovo, relativamente anziana (62,7% ha più di 50 anni) e molto autoreferenziale. Quanto alla gerarchia del potere, il campione pone al vertice i politici locali, i dirigenti della Cooperazione, le cariche dello Stato, al quarto posto imprenditori e manager ed infine gli ecclesiastici.

Una rappresentazione immobile, che non lascia molte speranze di cambiamento. Anche perché, ha notato Mario Marangoni, la dirigenza pubblica non dovendosi confrontare con il mercato, può permettersi di essere poco efficace e poco efficiente.

I rimedi? «Essere tolleranti verso le novità e le sperimentazioni» ha suggerito Innocenzo Cipolletta. «Aprirsi all’esterno, favorendo il confronto tra esperienze» ha proposto il preside di Economia, Paolo Collini. Con Celli, direttore della Luiss, che ha ricordato come, in realtà, «il vero maestro sia colui che si farà “tradire” dal suo allievo». Apertura mentale di cui, conveniva Nadio Delai, non s’è trovata gran traccia nella classe dirigente trentina.

Soprattutto perché con 4 miliardi di bilancio non c’è fallimento che non possa essere coperto. Ma questo è amministrare, non governare. Un qualche esame sui risultati farebbe bene alla dirigenza pubblica, così come accade per quella privata. Fosse solo questo il risultato del Rapporto e del Festival, sarebbe una bella novità.

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