La bellezza ci salverà. Una parentela stretta tra Etica ed estetica. L’evento organizzato da tsm indaga i processi evolutivi della mente
di Danilo Fenner
La seconda edizione di “Complessità” evento organizzato da tsm, si terrà a al Mart il 17 e il18 giugno. Il seminario, dal titolo “la Mente Estetica”, vuole porsi come spunto di riflessione sulla complessità
Quando l’inquisitore inviato da Breznev chiese a Iosif Brodskij, ch’era accusato di parassitismo (i poteri assurdi generano cose assurde): “ma a lei chi glielo ha detto che è un poeta?” si sentì rispondere con apparente ingenuità: “nessuno mi ha mai nemmeno detto che appartengo alla specie umana”. Era un 31 dicembre freddissimo, il 1971 si stava chiudendo a Mosca nel solito rituale di cielo grigio e nevischio. Dopo quel breve colloquio, Brodskij ricevette un invito, stilato dal Kgb, a emigrare in Israele. Il 4 giugno dell’anno successivo venne espulso dall’URSS. Recise per sempre il suo rapporto con il potere sovietico, che era “un cattivo stilista”, secondo la celebre definizione che ne diede sedici anni dopo nel discorso tenuto per il conferimento del Nobel.
I poeti, a volte, vedono lontano: e quando Brodskij, sempre in quel famoso discorso, stabilì che l'estetica era la madre dell'etica (e che il male dunque non era un bravo stilista), disse qualcosa che non solo aveva a che fare da vicino con quanto si stava elaborando, negli stessi anni, in Italia. Disse qualcosa che aveva un preciso fondamento neurocognitivo, niente meno.
Che il mondo fosse diventato - anzi, lo fosse da sempre - una cosa molto complessa lo si scoprì in quegli anni Settanta, in una Milano che non era ancora da bere, ma la città livida e brumosa e tuttavia vitalissma descritta così bene nei romanzi di Scerbanenco. Il fulcro era via Papa Gregorio, vicino a piazza Vetra, dove si riunivano quelli del Gruppo Anti-H e dell'Istituto di Polemologia, gente che mangiava pane e scienze cognitive e che tirava notte disputando su temi quali «fa pace non è pacifica» o «la guerra è una forma di omicidio differito». Ci si occupava delle angosce collettive, si dava vita ai primi centri per l'orientamento degli immigrati. Intorno alle ricerche di Franco Fornari, di Gianni Pellicciari o di Gino Pagliarani nasceva qualcosa destinato a far sentire nei decenni successivi la sua onda lunga.
Una definizione oggi notissima, il “paradigma della complessità”, ha le sue radici in quegli anni. Chi a quel tempo si nutriva del verbo di illustri maestri (e maestri lo furono per davvero, non solo in campo scientifico, ma anche di vita) e aveva ancora i calzoni corti, si ritrovò una decina d'anni dopo in quello che fu destinato a divenire un fertile laboratorio di pensiero e di ricerca: Mauro Ceruti, Gianluca Bocchi, Ugo Morelli che ora vive e lavora a Trento dove dirige un master alla ''Trento School of Management”. Sempre a Milano, ma stavolta la scena si sposta alla Casa della Cultura. Un luogo che trasuda storia, dedizione al pensiero e alla civiltà. Molti ricordavano ancora quando, il 16 marzo del 1946, Ferruccio Parri fece una lunga passeggiata, a piedi, dalla sua casa in via Melzi d'Eril fino a via Filodrammatici assieme a Raffaele De Grada, che gli aveva proposto di mandarlo a prendere in macchina, per inaugurare la Casa della Cultura. Parri aveva rifiutato l'auto, e anche la scorta: ''Preferisco camminare», aveva detto. Si era appena dimesso da Presidente del Consiglio, quello era stato il modo se così si può dire - per ufficializzare la decisione: di buon passo il padre della patria andò in centro, al microfono della neonata Casa della Cultura parlò di “vigilia antelucana'', e insomma un pezzo importante della storia della neanche nata Repubblica italiana venne scritto a Milano. Quel giorno dell'84, dunque, alla casa della Cultura gli ex allievi di Pagliarani e Pellicciari e Edgar Morin invitano il gotha degli studiosi dei processi della mente e dell'evoluzione dell'uomo. Sul palco, anche uno strepitoso Stephen Jay Gould, che il gruppo di Milano conosceva già da alcum anni.
Da lì la ricerca epistemologica in Italia, e non solo in Italia, subì un nuovo orientamento di rotta e generò, come si diceva, una corrente lunga. Oggi i rivoli di quella straordinaria e feconda stagione sono quattro: a Bergamo, dove operano Ceruti e Bocchi; a Milano Bicocca, dove lavorano Giorgio De Michelis, Telmo Pievani e Fulvio Carmagnola; a Pisa, con Alfonso Maurizio Iacono e Aldo Giorgio Gargani; e a Trento, con lo stesso Ugo Morelli, con l'ex rettore Massimo Egidi e con l'esperienza di Pluriversitas. Una “geografia della complessità”, potremmo definirla così.
A riunire molti di questi illustri studiosi ci ha pensato - per il secondo anno consecutivo dopo il felice esperimento del 2004, nel ventennale di quel fondamentale 1984 milanese - la Trento School of Management, in un seminario intitolato “La mente estetica”, che si terrà il 17 e il 18 giugno prossimi a Rovereto, nella Sala conferenze del Mart. La prossimità con l'arte, dentro uno dei più nuovi templi dedicati alla contemporaneità, ovviamente non è affatto casuale, dato il tema. Tutto ritorna sempre a vent'anni fa, alla scoperta che il mondo era forse - anzi, certamente - un po' più complicato di quanto si- supponesse. Ugo Morelli ce ne parla con un riverbero di sincera nostalgia negli occhi. Quella Milano, quei dibattiti, quelle figure di grandi maestri gli ripassano davanti mentre spiega com'è nato tutto questo. “C'era Alfonso Iacono che scrisse “L’evento e l'osservatore”, un testo fondamentale dove si stabiliva che la realtà viene sempre modificata da chi la osserva. Scoprimmo, con nostra grande sorpresa, che la prima scienza dove si riconobbe questo fu la fisica. E c'era uno come Carlo Sini che tenne un seminario intitolato “Vedere senza occhi”, dal quale noi tutti uscimmo sconvolti e cambiati”. Se l'oggetto che osservo viene modificato da me che lo sto osservando, ciò significa che l'impostazione tradizionale della scienza (dove la realtà è tutta perfettamente catalogabile in modo univoco) va a farsi benedire. E difatti così fu. Se oggi questi principi sono usuali persino nei salotti televisivi o nei bar, vent'anni fa sconvolsero il mondo accademico.
Ma Brodskij che c'entra? Lo avevamo lasciato esule dall'Unione Sovietica, proiettato verso un futuro di grande impegno letterario e di enorme fama. Occorre dire anzitutto che Gino Pagliarani, uno dei «maestri» di quanti si ritroveranno a Rovereto nel seminario della tsm (a lui è dedicata affettuosamente l'edizione di quest'anno), fu amico del poeta russo. Pagliarani avvertì una fortissima consonanza fra la ricerca intellettuale di Brodskij e quanto si veniva sviluppando in quegli anni in Italia. Al centro, il rapporto fra etica ed estetica nuovo, sconvolgente per l'epoca. Immaginate uno che dice: «Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell'uomo. Giacché l'estetica è la madre dell'etica. Le categorie di buono e cattivo sono, in primo luogo e soprattutto categorie estetiche che precedono le categorie del bene e del male... Il bambinello che piange e respinge la persona estranea che, al contrario, cerca di accarezzarlo, agisce istintivamente e compie una scelta estetica, non morale”. (discorso per il Nobel, in «Dall'esilio», edito da Adelphi). Pura speculazione intellettuale? Mere ipotesi filosofiche? Niente affatto, e proprio qui sta il nodo centrale: le intuizioni di Brodskij trovano un preciso riscontro nelle scienze neurocognitive. Una decina d'anni fa furono individuati i cosiddetti “neuroni specchio”, mediatori del riconoscimento estetico. Quelli che stanno alla base, per intenderci, del complesso rapporto fra madre e figlio e che presiede all'apprendimento di un neonato, alla «messa a punto» del suo cervello.
Quando affermiamo dunque che le categorie del bello e del brutto precedono quelle di buono e cattivo stiamo dicendo qualcosa che ha un fondamento preciso nell'esperienza neurocognitiva. E dire che l'estetica presiede all'etica, per esempio, o che l'estetica può aiutarci a risolvere i conflitti (fu ancora Brodskij a collegare tutto questo con la celebre osservazione di Dostoevskij secondo cui “la bellezza salverà il mondo” o con l'affermazione di Matthew Arnold che “la poesia ci salverà”: provocazioni che per i ricercatori hanno ora una accertata base scientifica) può far esplodere una piccola bomba, anche oggi. Ugo Morelli sorride con l'affabilità che gli è solita: “Immagino già le reazioni: così si mortifica l'atto della fruizione dell'opera d'arte, che gusto c'è a contemplare un dipinto se riduco tutto a un fatto di neuroni? Ma io dico che anzi così esaltiamo la nostra esperienza estetica. E' tutto così umano, troppo umano... In fin dei conti, lo studio dell'astronomia non svilisce mica il piacere di contemplare un bel cielo stellato, no?”.