News/Approfondimenti > 24 novembre 2014

Responsabilità sociale e Innovazione

Come gestirle al meglio nelle imprese non profit, for profit e ibride
Prof. Michele Andreaus e prof. Antonino Vaccaro
Economia Trentina

Negli ultimi anni il concetto di responsabilità sociale da un lato e di innovazione sociale dall’altro hanno avuto un crescente impatto, sia a livello di dibattito scientifico, sia nella gestione delle aziende, sia nella creazione di nuovi spazi per iniziative imprenditoriali.

E’ possibile affermare che oggi questi aspetti si possano considerare pienamente all’interno dei principali temi di insegnamento e di ricerca accademica ed il loro profilo sia in continua evoluzione.

Molteplici sono i punti dai quali è possibile partire per analizzare tale fenomeno. E’ di immediata percezione come le imprese, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, siano costantemente sotto gli occhi degli stakeholder, ossia di soggetti portatori di interessi diretti ed indiretti. In un passato ormai relativamente lontano, le imprese potevano sostanzialmente ignorare tali pressioni, ovvero gestirle nel momento in cui queste potevano creare qualche forma di disturbo.

Oggi, complice anche un’esplosione delle informazioni e soprattutto un’elevata rapidità di diffusione, anche attraverso canali informali – si pensi ad esempio il mondo del social web – il ruolo degli stakeholder è talvolta fondamentale nel determinare le sorti non solo di un prodotto, ma di un’intera azienda. Numerosi sono gli esempi che si posso fare, dal famoso caso Nike della fine degli anni ’90, alla Nestlé e così via.

Le aziende hanno risposto a tali istanze cercando di anticipare e, le più attente, a fare proprie le istanze degli stakeholder, non solo anticipandoli, ma creando un rapporto proattivo, che si basa su una rete di relazioni sistematiche, che vede un vero e proprio coinvolgimento degli stakeholder in molte decisioni.

L’approccio gestionale cambia radicalmente, in quanto cresce la complessità e la dimensione stessa del processo. In altri termini e semplificando, mentre prima il driver decisionale poteva essere relativamente semplice – ad esempio la redditività o la quota di mercato – oggi ci si deve muovere all’interno di uno spazio n-dimensionale, dove rimane sempre l’aspetto core della creazione di valore economico, ma questo viene annegato in un contesto che deve tenere conto delle istanze dei portatori di interesse interni ed esterni, in un’accezione talmente ampia da arrivare a comprendere l’intera comunità.

Nelle aziende for profit, tale atteggiamento può essere meramente strumentale o strategico, e purtroppo in questa sede non abbiamo lo spazio per approfondire tale aspetto. Soprattutto nelle aziende di maggiori dimensioni, è ormai considerato un aspetto che non viene posto in discussione, ci deve essere, punto.

Le aziende di grandi e di medie dimensioni che non presentano un bilancio sociale o un report di sostenibilità, che non hanno una funzione o un responsabile interno dedicato alla responsabilità sociale dell’impresa, sono ormai un’eccezione. Semmai, il punto che questa aziende incominciano a porsi, è molto semplice: in un’ottica strumentale, non possono non essere attente a determinati aspetti, quindi, se non lo sono, potrebbero avere un problema che possiamo definire di tipo “reputazionale”. Ma nel momento in cui sono attento a determinate istanze, e cerco di farlo bene, come posso utilizzare questa attenzione all’interno delle mie leve di competitività, al fine di creare valore economico nel medio lungo termine e quindi sostenibile?

Accanto al mondo for profit, vi è poi l’insieme di quelle aziende che non perseguono scopo di lucro, il mondo del non profit. Qui il discorso è per certi versi differente, in quanto il fine istituzionale passa dalla creazione di valore economico, alla creazione di valore sociale. Talvolta queste realtà vengono considerate de facto socialmente responsabili in quanto perseguono appunto un fine sociale. In realtà si può perseguire un fine sociale in modo socialmente non responsabile e quindi questo è un primo punto da tenere presente. Ciò premesso, le dinamiche e le sensibilità sono in genere ben diverse nei due mondi ed anche le leve per inserire e considerare queste istanze e soprattutto il loro rapporto con la finalità sociale delle aziende seguono dinamiche generalmente non sovrapponibili tra i mondi del for profit e del non profit. Semplificando al massimo, possiamo comunque affermare che comunque ci troviamo di fronte ad organizzazioni aziendali e, in quanto tali, devono essere gestite correttamente e hanno quindi bisogno di un ottimo management.
Esiste un terza categoria, che potrebbe collocarsi in un’intersezione dei due insiemi, che è dato da imprese che perseguono finalità di tipo economico e quindi la creazione di valore economico, ma con una distribuzione di questo valore diversa rispetto al for profit puro. E’ il mondo che in dottrina si definisce delle imprese ibride, che hanno in sé i tratti del for profit e del non profit, e più in generale dell’impresa sociale. Tale approccio è tipico degli studi internazionali, mentre in Italia si tende a cristallizzare l’attenzione sulla polarizzazione tra for profit e non profit, dove semmai questo insieme trasversale viene dominato dalle imprese cooperative, certamente presenti, ma meno frequenti, nei paesi che oggi guidano il dibattito internazionale sul management.

Le imprese sociali hanno tratti gestionali ancora differenti, in quanto qui è chiaro che il management deve creare valore economico, ma poi la distribuzione di questo non va ai soci e, se lo va, i criteri e le dinamiche di distribuzione sono differenti. In genere però il valore economico viene distribuito all’esterno, alla comunità o a particolari categorie di soci e/o di lavoratori. Si pensi al caso ad esempio di una cooperativa sociale, che può operare sul mercato in concorrenza con imprese for profit, ma il suo utile ha criteri di distribuzione ben diversi, che riusciamo a leggere con grande difficoltà nel bilancio, perché i momenti della creazione dell’utile e quelli della sua distribuzione non sono ben distinti, come nel for profit classico, ma sovrapposti. In altri termini, il margine economico che deriva dall’efficienza, viene impiegato per aumentare alcuni costi, ossia quelli legati al raggiungimento dell’obiettivo perseguito.

Legato prevalentemente al tema dell’impresa sociale, si assiste al progressivo consolidamento di un tema presente ormai da una trentina d’anni, ma che ha assunto negli ultimi tempi un grande vivacità a livello internazionale. Si tratta del dibattito che ruota attorno alla cosiddetta social innovation, ossia l’innovazione nella gestione e nell’erogazione dei servizi sociali e del welfare in generale. In una sintesi estrema, si assiste nel mondo occidentale, da un lato ad un progressivo abbandono del campo da parte delle pubbliche amministrazioni, essenzialmente per motivi di budget, le quali o rinunciano semplicemente ad erogare il servizio, o lo esternalizzano. In entrambe i casi, si crea una domanda di servizi. Innanzitutto, il fatto che la pubblica amministrazione non lo eroga più non vuol dire che la domanda non esiste, ma semplicemente che non trova risposta. In secondo luogo, l’esternalizzazione del servizio crea uno spazio nuovo, che deve essere riempito. In qualsiasi area dove esiste una domanda, in linea teorica nasce un mercato che cerca di creare un’offerta e di incrociare domanda e offerta.

Ecco quindi che nasce uno spazio importante per una nuova imprenditorialità, che non può essere, salvo casi particolari, ad appannaggio del settore for profit, in quanto le dinamiche non consentono il tipico approccio di mercato (si pensi ad esempio alla difficoltà a vendere servizi sociali ad un prezzo remunerativo). Tale spazio consente quindi – ed ha consentito in passato – una crescita importante dell’imprenditorialità sociale e oggi tale crescita si presenta estremamente interessante, in quanto è un’area dove si incrociano alti livelli di innovazione. L’innovazione sociale genera infatti un volano di innovazione non solo nel senso letterale del termine, ma in un approccio molto più ampio, che vede una spinta all’innovazione organizzativa, di prodotto e di processo, e ad un utilizzo sempre più massivo di innovazione tecnologica a supporto dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi sociali.

Questi temi non devono infatti essere utilizzati per distinguere l’azienda “buona” da quella “cattiva”: non esistono aziende buone o cattive, ma esistono aziende brave e non brave e quindi aziende gestite bene o gestite male.
Per approfondire questi temi, qui brutalmente accennati, è in corso di definizione un percorso formativo di alto livello, destinato a manager coinvolti nell’ampia area della responsabilità sociale d’impresa, nella gestione di imprese sociali o organizzazioni non profit, che, attraverso 5 incontri, coinvolgendo docenti delle più importanti business schools al mondo, affronta tali temi, cercando di porre a confronto le principali esperienze a livello internazionale.

Il corso è organizzato e coordinato dal prof. Antonino Vaccaro, responsabile del “Center for Business in Society” di IESE, Barcellona e dal prof. Michele Andreaus dell’Università di Trento, ed è articolato in moduli di una giornata e mezza, generalmente di venerdì e sabato mattina (alcune lezioni saranno in parte in lingua inglese).
Gli aspetti organizzativi e gestionali del corso sono seguiti dalla Trentino School of Management. 


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